Riconobbi quel sorriso appena entrai nel locale. Era da molto che non lo vedevo. L’ultima volta, fu in seguito a una brutta storia. Era luglio, la maturità alle spalle. Salvo era uno skinhead. Un antifascista militante, di strada. Testa rasata e basette, jeans aderenti coi risvolti alle caviglie, anfibi, bomber: la sua divisa. Era un tipo elettrico. Ruvido, irascibile. Posseduto da una collera malsana. Non parlava, urlava; non camminava, marciava. Lo sguardo aggressivo, gravato da una minaccia perenne, come un soldato braccato. Intossicato dal nemico. Teneva una mazza da baseball nel baule dell’auto. Quel giorno d’estate cambiò tutto. C’incontrammo nella nostra piazzetta, davanti alle Poste centrali, nel caldo assurdo della pianura. Stappammo Moretti da 66 e brindammo alla nostra vita nuova, agli esami passati per un pelo. Quel giorno sorrideva, ma durò poco. Arrivò un capellone metallaro, vestito come un becchino. La maglietta nera con la croce celtica. Era venuto a provocare, lo sapevo. Salvo gli andò subito incontro, gli chiese cosa volesse. Non era il suo territorio. Io seguitavo a bere: non avrebbe fatto cazzate, non in pieno giorno. Non quel giorno. Sbagliai. Iniziò a sbraitare, agitando il pugno. Era scatenato. Nell’istante in cui mi mossi per fermarlo era già tardi. Gli spaccò la Moretti in faccia. L’altro crollò a terra, svenuto, in una pozzanghera di sangue e birra.
Si beccò una denuncia. I genitori lo cacciarono, andò a studiare a Roma. Storia. Non beccava una lira dai suoi e si trovò un lavoretto. Per un anno scelse di non tornare. Voleva chiudere col passato, diceva.
In famiglia lo chiamavano L’Illuminato, ora. Capii presto il perché. Era un’altra persona. Solare, distesa, il sorriso serafico. Custodiva una luce segreta negli occhi, che dispensava come un dono prezioso. Lo contemplavo incredulo. Era quasi una presenza solenne. Fino allora credevo che le persone non potessero cambiare, ma quella sera dovetti ricredermi. Anche il suo look era cambiato: sempre un po’ trasandato ma più sobrio, s’era fatto anche crescere i capelli, dritti, pettinati col gel. Con lui c’era la sua ragazza, una romanaccia con due occhi smeraldo incastonati in un viso dolce, puerile.
“Senti ma com’è che ti sei ridotto così?”, gli chiesi, ridendo. “Ridi ridi… Ho trovato la mia strada. O almeno credo…”, disse. “Ecco il segreto”.
Io no. Lavoravo come facchino presso un teatro. Scaricavo camion. Due volte a settimana, peraltro. Vivevo nel nulla. Ero un po’ depresso. Mi ubriacavo con gli amici della piazza. La solita, paludosa vita di provincia. Salvo era una ventata d’aria fresca, ignota. Raccontava le sue storie come i conquistadores al ritorno da un’avventura esotica. Le stanze in condivisione, la vita universitaria, la politica studentesca. Crepavo d’invidia.
“Ora studio con passione. Cosa che prima, come sai, mi dava lo sbocco. Studio quello che prima vivevo senza averne troppa consapevolezza. Cerco di capire. Mi sembra un buon modo per ricominciare. Prima… Boh, non stavo bene: sempre nella tensione, ossessionato dal nemico… Ma in maniera incosciente, capisci? Che poi, sai, non ne avevo neanche visti molti, di nemici, a parte qualche pirla ogni tanto, come quello là che seccai in piazzetta”. C’era fuoco puro, crepitante, in fondo al suo sguardo. Lo stesso di prima, ma bonificato dalla rabbia. “Vattene da questo paese, dammi retta”, concluse. “Altrimenti non cresci”.
Andai in bagno, un po’ turbato e anche infastidito dalle sue parole. Perché sapevo che in qualche modo aveva ragione. All’ingresso mi scontrai con due zarri dal viso paonazzo. Si pinzavano il naso, soffiando dalle narici. La striscia della buonanotte. Ritornai al tavolo. C’era un’ombra su Salvo. L’aria era cupa. Si alzò.
“Andiamo”, disse. “Ehi, perché, stai scherzando? Non ho ancora finito l’amaro”.
Mi indicò il tavolo accanto. Cinque ragazzi, tra cui i due che incontrai in bagno, ci fissavano torvi, ostili. Capii. Andammo a pagare. Fuori stagnava una nebbia densa come cotone, l’umidità ci si appiccicava addosso. Ci avviammo alla macchina. Due ragazzi ci sbarrarono la strada. Sui trent’anni, facce lampadate, consumate dall’odio. Uno aveva una cicatrice in fronte. Salvo prese la morosa per mano.
“Fateci passare, perfavore”. Invece lo spinsero. “Non li vogliamo quelli come voi nel nostro locale, cazzo di comunisti”. Ne arrivarono altri, da dietro. Un paio avevano le mazze. Alcuni non erano italiani.
“Su ragazzi, ce ne stiamo andando, non vedete? Dai, non perdiamo tempo, ok?”, disse Salvo. Loro ci accerchiarono. Con quella rabbia remota. Bestiale. Recondita. E ci furono addosso. La ragazza iniziò a gridare. La trascinarono via. In due mi bloccarono, in quattro lo colpirono. E non vidi più nulla.