a Nino De Vita
Che non fosse agevole, giungere a Santa Margherita di Belice, o Santa Margarita, come dicono qui, o Manzil-Sindi, come chiamavano l’originario casale gli arabi, lo presagivo.1500 (o anche solo 100) chilometri non sono mai uno scherzo – e neppure i lunghi anni o gli attimi interminabili dell’attesa, del dubbio, del disinganno. Specialmente se, come me, non sei neppure convinto che muoversi, spostarsi continuamente da un luogo all’altro, con tutto ciò che comporta in termini di instabilità e insicurezza interiore, subire questa o quell’attrazione motivata o folle, come per esempio quella di andarci veramente e di persona, a Santa Margarita, sia cosa giusta o serva a qualcuno o qualcosa – se non a perderti definitivamente nel caos statico del tempo e dello spazio che oggi le nuvole e l’impalpabile foschia mattutina dilatano e offuscano come laggiù, oltre i tetti compatti e le palme di Sciacca e di Menfi, la visione illusoria della costa mediterranea. Così, mentre piano piano ci vai e non sai se fai bene ad andarci e a ogni curva o svincolo sei tentato di invertire la rotta e tornare sui tuoi passi, hai l’impressione di non arrivarci mai, nei luoghi agognati, e poi, quando finalmente ci sei, di esserci sempre stato.
Salendo verso il centro del paese, a quest’ora pressoché spopolato e anch’esso in apparente quanto vana attesa di un qualcosa che pare non voler o poter mai accadere, ti investe la gradevole, quasi comica consapevolezza di non essere che un ulteriore, microscopico e inconsistente, fantastico e non certo decisivo tassello del grande, immenso puzzle di questa terra amabile e sfuggente ai confini della provincia agrigentina, terra dove tutto pare incredibilmente perfetto e stabile, guardato a vista e in sepolcrale silenzio dalle migliaia di ciclopici fichi d’India allineati a braccia levate sotto il sole accanito. Ti guardi attorno con fare sospetto, anche se nessuno sembra sospettare di te o addirittura aspettarti – se non il vuoto e il silenzio di una grande, oblunga e leggermente inclinata piazza delimitata verso oriente da un ampio palazzo borbonico parzialmente ristrutturato. Che mai sono venuto a cercare, allora, a Santa Margarita? I ruderi e le macerie lasciati dal terribile terremoto del 1968? Le moderne costruzioni che sembrano pagine di un’altra, inutile storia? O, forse, sono arrivato (come scrisse in una lettera il nostro autore poco prima di abbandonarci) ad un’ora scomoda?
Eccolo, l’oggetto che mi ha letteralmente trasportato fin qui: una misera eppure stupenda facciata di un palazzo che in realtà non esiste più, un semplice ma bellissimo muro sopravvissuto come per miracolo al sisma infausto e ora sovrapposto come una beffarda maschera antica al volto anonimo di un caseggiato ristrutturato. Palazzo Filangeri di Cutò. Il Palazzo del Gattopardo, la dimora del Principe di Salina e, ovviamente, del piccolo Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Accanto agli uffici comunali, le sale dedicate al Museo del Gattopardo, con cimeli familiari, lettere autografe, fotografie, pagine del manoscritto originale. Non mi soffermo a lungo e prima di abbandonare il paese ammiro l’incantevole giardino con piante secolari in cui il romanziere del “dobbiamo cambiare tutto perché tutto rimanga com’è” trascorse molte ore della propria infanzia tra colori e profumi di zagara e origano. Nulla è risolto, mi dico riscendendo lentamente la valle del Belice, anzi la nostalgia per tutto ciò che nella nostra vita è stato capace di farci sentire viva parte di un tutto sconosciuto mi accompagnerà ancora e per sempre – come l’ultimo sguardo fugace gettato sull’orologio in bella vista sopra il balconcino della vecchia facciata che nella mia memoria pare voler segnare una perenne ora scomoda.