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‒ No, no, no…

‒ Dai, in fretta, alzati!

Era la mano piccola e sudata di Lilas che le stava scuotendo una spalla e la fece svegliare di colpo. Il sogno doveva essere stato spaventoso, ma svegliarsi era di sicuro peggio. Fuori era ancora buio, ma faceva già molto caldo. Sentiva male alla schiena e alle mani. Si avvicinò al catino ‒ nell’acqua vide un’immagine confusa e irriconoscibile. Un po’ di acqua alle tempie, un po’ sui capelli. Chiuse gli occhi e pensò di essere nel fresco del boschetto di betulle, la guancia poggiata contro il muschio, quella sensazione di umido e di morbido.

‒ Muoviti, è tardi! Tieni!

Lilas, la sua amica, parlava con la bocca piena. Masticava un pezzo di pane, e nella mano ne teneva un altro pezzo, la mano allungata verso di lei. Aifé lo prese. I loro occhi si incontrarono. Neri, stretti per il sonno, immobili. Con i loro pezzi di pane fra i denti, le piccole mani presero a muoversi. Quattro piccole mani si agitavano secondo un ritmo senza musica, veloci veloci veloci tra decine di fili ‒ fili tesi, spessi, duri. A quei fili le quattro piccole mani ne annodavano altri, di tanti colori brillanti, brillanti come il verde delle felci bagnate di rugiada, il rosso dei frutti di mango, il blu fondo del cielo dell’India dopo i monsoni, colori caldi, colori splendenti, colori morbidi come il velluto. Le quattro piccole mani non avevano occhi per vedere la meraviglia di quelle tonalità fuse insieme in voluttuosi arabeschi, antichi quanto il mondo, antichi come il ritmo senza musica delle quattro piccole mani. Quattro piccole mani, antiche quanto il mondo, che del mondo portavano tutto il peso, il dolore, lo strazio ‒ mani macchiate di cicatrici nere, perché ogni taglietto va bruciato con un fiammifero per non sporcare di sangue il tappeto.

‒ Non ce la faremo mai, non ce la faremo mai.

Era quasi senza voce, Lilas. Parlava per darsi forza, ma non poteva trovare se non parole di sconforto. Le ripeteva come una nenia. Erano suoni senza senso. Anche Aifé sapeva che il tappeto doveva essere finito prima del tramonto. Non osava pensare alle conseguenze, se non l’avessero finito. Doveva essere venduto quella sera stessa. Succedeva la stessa cosa più o meno tutti i mesi. Il padrone del telaio portava lì altri uomini. Guardavano il tappeto, lo toccavano, lo giravano da tutte le parti. Poi davano al padrone del telaio tantissimi soldi, arrotolavano il tappeto e se lo portavano via. Anche quella sera doveva succedere la stessa cosa, altrimenti… Aifé non poteva fare a meno di sentirsi gelare, immaginando il padrone del telaio entrare di colpo, vedere il tappeto non ancora finito. A ogni minimo rumore sussultava ‒ potevano essere i suoi passi.

‒ Non ce la faremo, questa volta non ce la faremo.

Lilas continuava la sua cantilena. Tutte e due sapevano che le quattro piccole mani non potevano muoversi più veloci di così. Ad Aifé sembrava che le parole non uscissero più dalla gola di Lilas, ma dai fili del telaio. Il caldo faceva scivolare gocce di sudore dalla fronte sugli occhi. Nella sua mente le parole strozzate di Lilas stavano diventando una musica, una musica che si illudeva di fare lei stessa, con le sue mani che andavano e venivano tra i fili, sempre più duri, sempre più pesanti. Il sudore le faceva bruciare gli occhi. Per non staccare le mani dal telaio, cercava di asciugarlo strofinandosi il volto contro le braccia. Ma quella strana musica diventava sempre più forte, così forte che lei si sentiva trascinare. Forse non era più la voce disperata di Lilas, no, era proprio una musica che veniva da lei, dalle sue mani, o forse nemmeno, la sentiva sempre più forte, veniva da dentro.

‒ È impos-sibi-le, questa volta n-on n-on…

Davvero Aifé non distingueva più nemmeno una delle parole di Lilas. Sognava di fermarsi, almeno un momento, due minuti, per bere, per mangiare un altro pezzo di pane. Ma nessuna delle due aveva il coraggio di interrompere il lavoro. E Aifé ormai muoveva le mani senza pensare più a niente, persa nella misteriosa magia di quella musica, che era più forte della stanchezza, e persino della paura di sentire la porta aprirsi all’improvviso. Adesso Aifé, se immaginava il ritorno del padrone del telaio con gli altri uomini che venivano con tanti soldi per comprare il tappeto, e se il tappeto non era finito chissà cosa succedeva, no, non si sentiva più il gelo nello stomaco, e non solo perché con quel caldo era impossibile sentire il gelo, non lo sentiva più perché la musica era così forte che sovrastava tutto, era così forte che Aifé non poteva più avere dentro di sé altre sensazioni se non la grande felicità di quella musica impossibile… felicità? Che cosa…

Fu in quel preciso istante che la porta si spalancò. Il tappeto non era finito. Le quattro piccole mani si fermarono di colpo. Con la coda dell’occhio Aifé vide le sagome di tre uomini in controluce nel riquadro della porta aperta.

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