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Osservava una villa del 1900, con l’intonaco scabro, colore del biscotto. Un vento a tratti violento lo colpiva ed esasperava il contrasto tra il calore dell’irraggiamento e il fresco dell’aria.

Il cielo era gonfio di nuvole che correvano veloci verso ovest, ma le rare aperture di azzurro avevano un nitore di porcellana.

Le robinie erano esplose in quei giorni riscattandosi dallo squallore del loro aspetto invernale. Lui ricordava che da bambino piegava in due le foglie di quelle piante, che tutti allora chiamavano acacie, le premeva contro le labbra e soffiando ne traeva un suono spernacchiante ma intonato. Con le foglie della parietaria, dotate di una naturale appiccicosità, si potevano disegnare stelle e grafemi sulle magliette.

Erano specie di una flora degradata, da scarpata; c’era anche l’Ailanto, dalla linfa puzzolentissima, bellissimo, eppure fuori posto. Solo tantissimi anni dopo aveva scoperto che quest’albero era proprio come una stampa cinese in un bar di periferia degli anni ’70, fuori luogo e fuori tempo, condannato ad apparire frivolo e gratuito.

Ma questo era stato milioni di anni fa. E poi dei suoi ricordi non era più sicuro. Era sicuro solo del fatto che erano lì, che lui era quei ricordi, che erano il filo di cui era intessuto il suo corpo ed era altresì sicuro, in modo inoppugnabile, che lo STATUTO DI VERITÀ di quegli oggetti, cioè la loro fantasmagorica relazione con tutti gli altri ricordi, suoi e degli altri uomini, con i documenti di archivio e le tracce rimaste nel mondo era, se mai era esistita, perduta per sempre o spietatamente inintelligibile.

Guardò le finestre della villa: le imposte erano chiuse, probabilmente da tempo. Era una villa a due piani, la classica casa di campagna del primo ‘900, con il terrazzino che sovrasta la porta d’ingresso e il tetto di tegole rosse che si muove in cuspidi che nobilitano e alleggeriscono la facciata, e sottolineano subito che non si tratta di una casa di contadini e che coloro che ivi trovano rifugio (invero per un periodo molto breve dell’anno) sono persone dimestiche alla lettera scritta e al far di conto.

Adorava quella casa e detestava le brutte, solide e squadrate roccaforti che i contadini e gli operai che tornavano alla campagna concepivano per sé stessi con la complicità di un cognato geometra e dell’amico che vende materiali edili.

Il cielo si aprì. Adesso le nuvole erano pomfi bianchi sparpagliati. Stentava a richiamare alla mente gli impegni del pomeriggio e per un attimo pensò che li avrebbe cancellati comunque.

Sedette più comodo sul muretto di pietra e notò di fronte a sé le vestigia di una porta di legno di un podere, ormai ridotta ad assi putride, fracassate, esplose. Una lumachina strisciava sul muschio fresco e umido in una striscia d’ombra.

Il sole caldo era lo stesso identico di quando era ragazzino, quando la sete del primo meriggio accoglieva concupiscente una Coca-cola gelata tra l’odore del guano di pollo.

Si rese conto che non era cambiato nulla e che tutto sarebbe rimasto così per sempre…ma fu il pensiero di un secondo.

Il verde urlava, cantava molto più forte dei suoi pensieri: gli uccelli, a milioni, modulavano il contrappunto assieme alle scaglie d’oro del torrente e all’azzurro assoluto.

Era vivo, e anche un po’ affamato, ma soprattutto vivo: eppure si sentiva liquido, già scomposto.

Tornò a fissare la lumachina: era avanzata forse di venti centimetri. Ora di andare.

2 thoughts on “Massimo Berri – Osservava una villa del ‘900

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