Brother is making
His baloon squeek like a cat
Seeming to see
A funny pink world he might eat on the other side of it,
He bites,
Then sits
Black, fat jug
Contemplating a world clear as water.
A red
Shred in his little fist.
Ballons, Sylvia Plath
Non sai come è successo.
Ti è scoppiata una bomba d’acqua addosso.
Sì, una bomba d’acqua. Uno di quei palloncini con cui si gioca da piccoli, palloncini come tutti gli altri, certo, eppure anche un po’ diversi. Forti, grossi, rinforzati, colorati. Li vendevano nell’edicola sotto casa. In un pacchetto ce n’erano venti, anziché cento, e costavano tremila lire e non mille. Sul talloncino di cartone c’era scritto, in rilievo, bombe d’acqua. E sotto: Palloncini extra lusso.
‘Mamma me le compri?’ l’avevi implorata ogni volta che passavi lì davanti.
Stavano proprio sulla porta rivestita di figurine da cui l’edicolante, il fisico allampanato, gli occhiali dalla montatura spessa e la pelle giallastra, entrava e usciva a ogni ora del giorno. E ogni giorno ce n’erano di meno, di bombe d’acqua. Il giorno prima ne erano rimasti addirittura solo due pacchetti e tu ti aggiravi sconsolata convinta di aver perso l’ultimo treno.
Era stato all’improvviso che era esplosa in tua madre una prodigalità esagerata, uno di quei rari momenti che attraversano la vita di ogni bambino come meteore.
‘Miraccomando, però, non sprecarle.’
Ti aveva detto ancora prima di prendere il pacchetto dalle mani del commerciante.
Non sprecarle. No, le cose non vanno sprecate.
‘Lo so’, le avevi detto cantilenando come una bambina leziosa.
Probabilmente hai imparato bene la lezione perché non le hai mai sprecate, tu, le tue cose. Sei passata attraverso la vita con uno sguardo basso e fuggitivo – ridente, poco – senza conoscere nessuno veramente. I tuoi occhi sono sempre stati chini, raccolti tra le pagine di un libro, pensosi, annoiati, tristi. Non le hai mai sprecate, tu le tue cose, le parole di quel giorno sono state delle messaggere di una vita. Hai tenuto i tuoi mondi fantastici stretti stretti nella tua testa, tutti per te, non ne hai messo a parte nessuno mai. E le tue bombe d’acqua, che erano fatte per riempirsi di acqua fredda in un giorno estivo al mare per essere tirate contro qualcuno facendolo rabbrividire e riderci assieme – sono rimaste congelate gelide – in attesa di esplodere contro un corpo caldo, e ridere, e ridere, e ridere.
Probabilmente se qualcuno ti guardasse – guardasse veramente, dico – allora potresti disintegrarti, come un vecchio foglio di carta velina che si apre improvvisamente alla luce dopo anni e anni di silenzio.
E così ti ritrovi ora, a quarant’anni ad aprire quel pacchetto di bombe d’acqua, all’improvviso, in un pomeriggio di nostalgia sotterrata in una cantina umida.
Stanno ancora nel loro vecchio pacchetto – devono avere ormai 33 anni – la carta è sottile, friabile, di colore giallastro, come la tua anima.
Le bombe d’acqua riemergono dal passato – ce ne sono sei azzurre, quattro rosse e cinque arancioni. Due gialle. Tre bianche.
Se ne stavano tra i quaderni di V elementare e il diario dei Puffi. Avevi scelto il pacchetto con cinque palloncini azzurri perché l’azzurro – come la speranza – è sempre stato il tuo colore preferito. Ti ricordi benissimo quel giorno – chissà perché si ricordano sempre le cose strane – il sentore delle tue mani sudate contro l’acrilico scricchiolante del pacchetto.
Le hai prese in mano, le bombe ad acqua, e le hai soppesate a lungo. Hai riso per il carattere bizzarro dell’etichetta, che un tempo ti era sembrata estremamente chic.
Poi – finalmente – le hai aperte.
Ecco le bombe d’acqua, premio prezioso, da tenere esclusivamente per un momento di festa. Sono sfilate accanto a te, e le hai ordinate lungo la tua coscia destra. Le hai allungate per benino, le hai sistemate una accanto all’altra, senza soluzione di continuità. Le hai rimirate a lungo, la loro grossa pancia, i loro colori allegri.
Le hai guardate, e poi chissà perché ti è venuto voglia di riempirne una.
C’era un rubinetto di ferraglia lì in cantina, ed è stato spontaneo, attaccarci il collo di uno di quei palloncini, come se fossi ancora una bambina di 7 anni. Hai aperto il beccuccio del rubinetto, e l’acqua ha iniziato a scorrere, veloce, attraverso il palloncino. Ne potevi vedere il limitare superiore, la tua bomba d’acqua è diventata prima un limone, poi un’arancia, infine un enorme ventre gravido.
Quando si è riempita per benino, l’hai staccata con attenzione, l’hai chiusa con un nodo e te la sei messa in grembo.
La bomba d’acqua era fredda – ghiacciata – esattamente come te l’aspettavi. Te ne stavi nella semioscurità della cantina, cercando di scorgere un tenue raggio di sole che non voleva arrivare da quella finestrella. Te ne stavi lì, come ghiacciata, gli occhi immobili quasi senza riuscire a respirare, nel grembo quella maledetta bomba d’acqua che finalmente eri riuscita a riempire dopo 33 anni, perché le cose non si sprecano.
Poi è successo. D’un tratto il tuo grembo si è inondato di acqua fredda, ghiacciata.
Hai sentito la tua pancia diventare gelida – e poi le tue cosce – e i tuoi genitali.
La bomba d’acqua doveva essere ormai troppo vecchia per essere riempita. Non poteva che essere così. La materia di cui era costituita ormai si è irrimediabilmente corrotta. Non era più idonea al suo compito.
Ormai è tardi, ti sei detta.
La tua pelle si è tinta di nero e da quel giorno non c’è stato più verso di farla tornare normale.